Quando si tratta di partecipare a qualche passeggiata turistica nella capitale è mia buona abitudine schedulare certe attività in mattinata, in modo da poter approfittare dell'orario per regalarmi qualche pasto fuori casa, un lusso che negli ultimi tempi si sta rivelando sempre più raro.
Questo mese, accompagnato da giornate insolitamente assolate e miti, ho ben pensato di regalarmi un pasto "tipico", e attraversando le tappe accodata alla brillante guida di turno, mi appuntai mentalmente svariati localetti dall'aspetto rustico e casereccio incontrati sul tragitto.
A fine gita, cercando di tornare sui miei passi, complice il mio pessimo senso dell'orientamento, non riuscii a ritrovarne neanche uno.
Quando la fortuna mi ignora, mi affido sempre, a malincuore -perchè conscia della sua natura traditrice, alla parte più razionale del mio cuore, e così finisco per scarpinare fino a Testaccio, regolarmente.
Giro il quartiere un pò ovunque, sperando di trovare una di quelle simpatiche osterie di cui si parla tanto sul web, ma trovo solo file infinite di gente in coda e prezzi non proprio "popolari"-- Alla fine, stremata dalla ricerca, mi avvicino ad un localino dall'aspetto intimo e tipico, ma mentre poggio la mano sulla maniglia per entrare, e mi rendo conto che è una scultura in bronzo di fattura elegantissima che si dipana lungo tutta la cornice della porta, schiocco la lingua: "Qui mi spenneranno a dovere."
Ma tanto è, avevo ormai una schiera di camerieri a mia disposizione, e mi ero già accomodata al mio tavolino per due con menu alla mano, ero in ballo e tanto valeva ballare: non avrei permesso al vile denaro di rovinarmi il pranzo, eccheccazzo.
Mi studio il menu con interesse, e noto molti classici della tradizione giudaico-romanesca. Questo mese il ristorante offriva anche un menu originale, ispirato alle cucine regionali italiane: sembrava fosse il turno della Toscana, e scartai immediatamente l'ipotesi.
Tra i vari piatti, notai un primo interessante che mi colpì: spaghettoni con la cicoria.
Mi ricordò di un'infelice avventura culinaria dei miei colleghi all'estero, che se la ritrovarono propinata negli Stati Uniti come in Olanda; aveva il sapore di un piatto povero da migranti dagli ingredienti decisamente non invitanti, e decisi di sceglierlo per mettere alla prova il cuoco. Se mi avrebbe convinto, avrei continuato il pasto, altrimenti mi sarei ritirata così, onestamente.
Aggredita dalla sommelier, e colta completamente alla sprovvista, mi affidai al suo consiglio ed evitai il solito "rosso della casa". Mi servì uno di quei vini rossi saturi, quasi affumicati, che detesto. Questa era la seconda volta che ad un ristorante il sommelier mi associava ad un vino simile, mi chiesi se ci fosse una sorta di "fisiognomica enologica", che associava un determinato "tipo" ad un vino-- Qualcosa insomma di stereotipico e crudele che associasse una persona mai vista prima ad un sapore a lei superficialmente affine.
Mi offesi realizzando che qualcuno immaginasse il mio animo fumoso e rancoroso come quel vino-- La cosa brutta è che non ricordo mai di che vino si tratta-- Quindi al prossimo servizio mi sarà sicuramente appioppato di nuovo. Ma a quel punto "rosso della casa" sarà.
Arriva il mio piatto di pasta, e mi trovo curiosamente intrigata.
La porzione è ricca, abbondante, ben condita; la noto ben spolverata di pecorino ed annuisco: il modo migliore di dar sostanza ad ogni salsa di condimento alla pasta è sempre aggiungere tanto tanto formaggio.
Arrotolo la forchetta sorniona, ammirando il modo in cui i granuli di pecorino si immergono nella salsa verde a base di cicoria. Sento l'acquolina germogliare nel palato.
Assaggio ed annuisco. Buono.
La salsa è a doppia consistenza: una parte di cicoria è stata frullata e mantecata col pecorino, l'altra è rimasta al naturale, secca e selvatica come ci si aspetta: masticando, è un'esplosione di sapori semplici e famigliari, in un retrogusto che sa di corse in campagna e raccolte di cicoria clandestine a bordo strada... Continuo il pasto con soddisfazione, e mentre faccio la scarpetta col buon pane casareccio, immancabile atto di rispetto verso il piatto, ordino un antipasto come seconda portata: opto per porchetta e carciofi alla griglia.
Arriva questa seconda portata, mi diverte il taglio generoso della porchetta ma resto delusa: la carne resta stoppacciosa, dura-- Idrato le papille gustative con i carciofi, veramente sfiziosi-- Non avevo mai mangiato carciofi alla griglia e sono promossi, ma l'impressione generale è negativa... Oltre tutto anche questa portata è decisamente abbondante, e faccio fatica a finirla-- Sarà veramente un antipasto? Non credo però che il problema fosse nella cottura o conservazione della porchetta, ma proprio nella sua presentazione: c'è un motivo se da che mondo è mondo, la porchetta viene servita a fette, e non sotto forma di bistecca.
Sono piena, ma anche insoddisfatta-- Non mi alzerò da questo tavolo finchè non avrò mangiato anche un dolce.
Torno sul menù, ed opto per uno dei miei preferiti locali, la crostata di ricotta e visciole.
"Purtroppo è finita", mi risponde desolata la cameriera. Tesoro mio, se mi avessi dato una coltellata mi avresti fatto meno male.
--Vado sul sicuro per evitare altri colpi dritti al cuore ed opto per la banalità che non manca mai in ogni frigorifero di ogni ristorante italiano, un tiramisù.
Buono, delicato, poco, compie il suo dovere e mi fa sorridere.
A fine pasto, con una panza immensa, mi ergo dal tavolino che mi và ormai stretto e vado a pagare: "39 euro", mi dice il propretaro, pago senza battere ciglio, il sorriso stampato sul mio volto sereno, imperturbabile, come una sfinge degna di un vino dal retrogusto fumoso.
Penso ai prezzi degli altri ristoranti che ho ignorato, ma mi consolo: è un pranzo che varrà anche per la cena. Dubito che per stasera avrò digerito tutta quella porchetta.
Questo mese, accompagnato da giornate insolitamente assolate e miti, ho ben pensato di regalarmi un pasto "tipico", e attraversando le tappe accodata alla brillante guida di turno, mi appuntai mentalmente svariati localetti dall'aspetto rustico e casereccio incontrati sul tragitto.
A fine gita, cercando di tornare sui miei passi, complice il mio pessimo senso dell'orientamento, non riuscii a ritrovarne neanche uno.
Quando la fortuna mi ignora, mi affido sempre, a malincuore -perchè conscia della sua natura traditrice, alla parte più razionale del mio cuore, e così finisco per scarpinare fino a Testaccio, regolarmente.
Giro il quartiere un pò ovunque, sperando di trovare una di quelle simpatiche osterie di cui si parla tanto sul web, ma trovo solo file infinite di gente in coda e prezzi non proprio "popolari"-- Alla fine, stremata dalla ricerca, mi avvicino ad un localino dall'aspetto intimo e tipico, ma mentre poggio la mano sulla maniglia per entrare, e mi rendo conto che è una scultura in bronzo di fattura elegantissima che si dipana lungo tutta la cornice della porta, schiocco la lingua: "Qui mi spenneranno a dovere."
Ma tanto è, avevo ormai una schiera di camerieri a mia disposizione, e mi ero già accomodata al mio tavolino per due con menu alla mano, ero in ballo e tanto valeva ballare: non avrei permesso al vile denaro di rovinarmi il pranzo, eccheccazzo.
Mi studio il menu con interesse, e noto molti classici della tradizione giudaico-romanesca. Questo mese il ristorante offriva anche un menu originale, ispirato alle cucine regionali italiane: sembrava fosse il turno della Toscana, e scartai immediatamente l'ipotesi.
Tra i vari piatti, notai un primo interessante che mi colpì: spaghettoni con la cicoria.
Mi ricordò di un'infelice avventura culinaria dei miei colleghi all'estero, che se la ritrovarono propinata negli Stati Uniti come in Olanda; aveva il sapore di un piatto povero da migranti dagli ingredienti decisamente non invitanti, e decisi di sceglierlo per mettere alla prova il cuoco. Se mi avrebbe convinto, avrei continuato il pasto, altrimenti mi sarei ritirata così, onestamente.
Aggredita dalla sommelier, e colta completamente alla sprovvista, mi affidai al suo consiglio ed evitai il solito "rosso della casa". Mi servì uno di quei vini rossi saturi, quasi affumicati, che detesto. Questa era la seconda volta che ad un ristorante il sommelier mi associava ad un vino simile, mi chiesi se ci fosse una sorta di "fisiognomica enologica", che associava un determinato "tipo" ad un vino-- Qualcosa insomma di stereotipico e crudele che associasse una persona mai vista prima ad un sapore a lei superficialmente affine.
Mi offesi realizzando che qualcuno immaginasse il mio animo fumoso e rancoroso come quel vino-- La cosa brutta è che non ricordo mai di che vino si tratta-- Quindi al prossimo servizio mi sarà sicuramente appioppato di nuovo. Ma a quel punto "rosso della casa" sarà.
Arriva il mio piatto di pasta, e mi trovo curiosamente intrigata.
Arrotolo la forchetta sorniona, ammirando il modo in cui i granuli di pecorino si immergono nella salsa verde a base di cicoria. Sento l'acquolina germogliare nel palato.
Assaggio ed annuisco. Buono.
La salsa è a doppia consistenza: una parte di cicoria è stata frullata e mantecata col pecorino, l'altra è rimasta al naturale, secca e selvatica come ci si aspetta: masticando, è un'esplosione di sapori semplici e famigliari, in un retrogusto che sa di corse in campagna e raccolte di cicoria clandestine a bordo strada... Continuo il pasto con soddisfazione, e mentre faccio la scarpetta col buon pane casareccio, immancabile atto di rispetto verso il piatto, ordino un antipasto come seconda portata: opto per porchetta e carciofi alla griglia.
Arriva questa seconda portata, mi diverte il taglio generoso della porchetta ma resto delusa: la carne resta stoppacciosa, dura-- Idrato le papille gustative con i carciofi, veramente sfiziosi-- Non avevo mai mangiato carciofi alla griglia e sono promossi, ma l'impressione generale è negativa...
Sono piena, ma anche insoddisfatta-- Non mi alzerò da questo tavolo finchè non avrò mangiato anche un dolce.
Torno sul menù, ed opto per uno dei miei preferiti locali, la crostata di ricotta e visciole.
"Purtroppo è finita", mi risponde desolata la cameriera. Tesoro mio, se mi avessi dato una coltellata mi avresti fatto meno male.
--Vado sul sicuro per evitare altri colpi dritti al cuore ed opto per la banalità che non manca mai in ogni frigorifero di ogni ristorante italiano, un tiramisù.
A fine pasto, con una panza immensa, mi ergo dal tavolino che mi và ormai stretto e vado a pagare: "39 euro", mi dice il propretaro, pago senza battere ciglio, il sorriso stampato sul mio volto sereno, imperturbabile, come una sfinge degna di un vino dal retrogusto fumoso.
Penso ai prezzi degli altri ristoranti che ho ignorato, ma mi consolo: è un pranzo che varrà anche per la cena. Dubito che per stasera avrò digerito tutta quella porchetta.
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